DIALOGO SULLA DRAMMATURGIA TRA EDOARDO SANGUINETI E EUGENIO BUONACCORSI
BUONACCORSI Sei personaggi.com non appartiene, a rigore, alla multiforme categoria delle riduzioni e dei rifacimenti. Non si può negare un rapporto con il dramma di Pirandello, ma il tuo testo è nettamente qualcosa d‘altro. Il tratto più appariscente della diversità sta nel fatto che nel tuo copione non agiscono sei personaggi. E poi hai eliminato tutta la tematica del teatro nel teatro che è consustanziale all‘opera dello scrittore siciliano. Di contro si rinvengono nel tuo testo elementi tipici della tua produzione, sia teatrale sia poetica. A designare più pertinentemente la natura del tuo lavoro mi sembra opportuno richiamare la nozione di «travestimento» che a partire dal Faust hai adoperato.
SANGUINETI Ci sono livelli diversi nella categoria del «travestimento». C‘è un grado zero che posso aver usato quando ho tradotto dei classici, greci o latini. Lì possono esserci delle libertà nel modo di restituire il testo. Sono forzature forse inevitabili perché tradurre vuoi dire comunque interpretare. Lo spettatore mica sta lì ad ascoltare Euripide. Ascolta ciò che ho scritto io. Io travaso nella mia lingua quello che Euripide dice in altra lingua, per giunta morta. Quindi in realtà chi parla è il traduttore. Di fatto è il traduttore che è nostro con-temporaneo, non il classico come si diceva una volta, a destra e a manca. Se il classico è contemporaneo, merito e colpa sono del traduttore. Poi ci sono forme più deliberate di travestimento. Per la mia esperienza, posso cominciare dall‘Ariosto. L‘Orlando Furioso è molto manipolato, non solo perché è montato e rismontato, ma anche perché c‘è un falso Ariosto fabbricato non solo quando dalla terza persona si passa alla prima, tua anche quando faccio tornare le rime là dove non tornano più oppure abbandono l’ottava pur mantenendo l’endecasillabo. E ci sono gradi ancora più forti di travestimento. Un esempio è quello del mio Faust. Lì c’è non soltanto un tradurre molto disinvolto dove si traduce, perché ci sono passi interi che sono un calco di Goethe, ma ci sono procedi-menti di attualizzazione, di passaggio ai giorni nostri. Tutto questo comporta anche cospicui procedimenti di straniamento da realizzare in teatro. In qualche caso diventa una parodia rispetto all’originale. Goethe si prestava bene perché è egli stesso molto disinvolto nella varietà dei temi e nella varietà degli stili. E già Brecht.
Infatti Brecht lavora spesso sui testi di Goethe. Per esempio nel finale di Santa Giovanna dei Macelli parodizza l‘apologia dell’anima bassa e dell‘anima alta del Faust. E anche in Arturo Ui usa la parodia della seduzione di Margherita nella scena del corteggiamento della moglie di Dullfeet.
Sì, Brecht è un grande travestitore. Pensa all‘Opera da tre soldi che parte da un testo di John Gay, o al Coriolano.
Si può continuare. Già la sua prima opera teatrale, Baal nasce da un altro testo, Der Einsame (Il solitario) dell‘espressionista Hanns Johst. In genere la sua creatività è innescata da testi preesistenti.
E questo a me piace molto, devo dire. In questo ultimo caso riferito a me, siamo a un livello molto avanzato di travestimento, perché di Pirandello resta poco o nulla, apparentemente. Io ho voluto mantenere I sei personaggi, che era l’idea di partenza, per scrivere poi un testo nella libertà più totale.
Ne abbiamo parlato varie volte: tu non stravedi per Pirandello, in particolare per l’autore di teatro. Infatti, l‘idea iniziale è di Andrea Liberovici. lo l’avevo avvertito che non avevi un grande trasporto nei confronti dello scrittore siciliano.
Sì, io non stravedo per Pirandello. Ne ho un‘opinione cautamente positiva. Condivido la diagnosi di Gramsci. Gramsci. che pure non ignorava l‘adesione di Pirandello al fascismo dopo l‘assassinio di Matteotti, ne apprezzava comunque l’atteggiamento distruttivo.
Aveva in precedenza valutato positivamente Liolà e i contenuti popolari della sua prima drammaturgia.
Certamente. Io ricordo comunque una frase di Gramsci, che diceva di Pirandello: «Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero». Insomma, è un eversore nei confronti degli standard della ideologia borghese. Di fronte all’obiezione che distruggere è facile, Gramsci sosteneva che sul terreno culturale distruggere è importante quanto costruire. Perché il compito della cultura è eminentemente critico, distruttivo di vecchie ideologie per far spazio alle nuove. Invece si vive di standardizzazioni, di imitazioni di modelli che la cultura egemone propone. Anche Marinetti, sotto questo punto di vista, gli sembrava interessante.
Ma la componente costruttiva, programmatica, ottimisticamente prescrittiva, è molto forte in Marinetti e nei futuristi, che non a caso hanno scandito la vita del movimento con un’alluvionale pubblicazione di manifesti, nei quali si voleva imporre ciò che andava fatto. Gramsci, dopo un iniziale apprezzamento, ne parlò come di un gruppo di scolaretti, che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferina dalla guardia campestre.
In merito, Gramsci ha tenuto una posizione molto articolata, che condivido. Io comunque non ho mai amato quello che è ipervalutato nei Sei personaggi: il meccanismo del teatro nel teatro, che ha fatto il successo del testo. Lo spettatore così è portato a badare meno a quel che succede, impegnato com’è a decifrare la dialettica fra personaggi, attori e spettatori.
La vicenda raccontata dentro il contenitore metateatrale sembra quasi un aneddoto. É quel che accade anche in Questa sera si recita a soggetto. In tutti questi decenni di recupero di Pirandello, servito in molte salse nei cartelloni stagionali di compagnie private e di Stabili, la componente del teatro nel teatro è stata inflazionata e alla lunga usurata. In fondo, se questo è il tratto decisivo, qualunque storia andrebbe bene.
A me interessava altro. Sono convinto che molta parte del gioco del teatro nel teatro e poi dell’impostazione pirandelliana siano connessi a una timidezza e a una paura. Il tema pirandelliano nei Sei personaggi è l’incesto. Pirandello mette in opera tutte le cautele perché questo tema appaia neutralizzato, elusivo, frustrato.
Questo è un punto su cui con Andrea Liberovici abbiamo discusso a lungo nel momento della gestazione dell’idea dello spettacolo. Nei. Sei personaggi l‘incesto è solo rasentato. E inoltre non riguarda la figlia, bensi la figliastra. La cultura del tempo e la sensibilità degli spettatori inducevano Pirandello a non essere troppo diretto. E non va escluso che abbia fatto queste scelte per attenuare e imbrigliare fantasmi emotivi che il rapporto con la figlia Lietta, su cui gravavano sospetti di incesto, faceva sorgere.
In più tutta questa storia deve essere messa in scena. La mia idea era: prendiamo il toro per le corna. Ma non abbandoniamo questa specie di schermo remoto come un mito, per cui lo spettatore ideale dovrebbe conoscere abbastanza i Sei personaggi. Del vecchio schema rimane poco, una specie di mito, di struttura che fa da sfondo. Questo è il primo atteggiamento che ho assunto. Il secondo è quello connesso al teatro dei travestimenti. Mi è parso interessante da un lato giocare sopra l’epoca pirandelliana, partire da elementi che possano corrispondere alla sua situazione di cultura e di gusto, dall‘altra cortoeircuitarli cori la morte di Balthus, con incroci culturali vari, per cui, per esempio, Madama Pace diventa Madame Sosostris di The Waste Lanci di T. S. Eliot. Questo permette quell’agglutinarsi di lingue che poi mescolo. C’è una parte che deriva da un saggio in spagnolo sopra Il grande masturbatore di Dalì, il famoso quadro. Tutta la parte in francese sull’incesto deriva dalla Filosofia nel boudoir di Sade. E avanti così. Quindi anche qui ci sono degli schermi e sono citazionali. Ma la loro funzione è rovesciata, per-ché sono spinti a rendere evidente tutto ciò che è stato occultato. C‘è infine un terzo punto, anche se va detto che le tre cose si sommano poi in un‘unica strategia. C‘è un aspetto tragico che in Pirandello è fortemente presente. Nei Sei personaggi si muore. il rischio dell‘incesto esiste, è una storia terribile. Questa commedia è una tragedia. In Pirandello ci sono sempre aspetti grotteschi. A me piaceva partire da questi e andare innanzi, convinto come sono che la tragedia con la società borghese muore. La tragedia c’è con il re, con l’Ancien régime, con l’aristocrazia. Per essere tragici bisogna non avere niente da fare: allora si può incontrare il destino. Con il mondo borghese non a caso si passa dalla tragedia al dramma. Pirandello è un grande borghese. E possibile che in lui ci sia una nostalgia della tragedia, ma non ce la fa, non ce la può fare a realizzarla.
Già sul finire dell’Ottocento, in Italia si apre un dibattito sulla praticabilità della tragedia. Un acuto e autorevole critico del tempo, Pier Coccoluto Ferrigni, che con Io pseudonimo di Yorick era il titolare delle cronache teatrali sulla «Nazione» di Firenze, scrive un interessante libro intitolato La morte di una Musa, dove affronta il problema del tramonto del repertorio tragico, con molto anticipo sulla Morte della tragedia di George Steiner, anche se non con la stessa complessità. E D‘Annunzio si lancia nel tentativo ali ripristinare la tragedia, ma non mette capo se non a esiti antiquari, una scossa data solo al «genere» letterario, ma scarsamente significativa per la rinascita del «tragico». La tragedia e il tragico non necessariamente collimano.
La tragedia non può più esistere perché tutte le categorie di fatalità ad essa connesse non funzionano più.
Nell’antichità il tragico nasceva dall‘urto con la divinità, nella società aristocratica dalla collisione con le gerarchie sociali intoccabili.
Prendiamo le Baccanti: da che parte sta Euripide? Sta per le Baccanti o per la polis? Non è possibile prendere par-te per questo o per quello.
Il problema è tragico perché non offre vie d’uscita.
Il mondo borghese invece nasce con Ia categoria della mediazione (pensa al significato della «sintesi» hegeliana). Nelle grandi tragedie novecentesche – si tratti di Kalka o di Joyce o di Bechett – il tragico è legato al comico. E l’orribile del basso non dell‘alto che innesca il tragico. In Sei personaggi.com ho spinto su questo elemento comico, grottesco. La tragedia dell‘incesto è presentata nella forma più «bassa». Il padre corrompe la figlia con le cartoline Ma poi la situazione si rovescia. E’ la figlia che si mette a sciorinare spiegazioni al padre. Così si arriva a cassare quella che può essere un’idea di personaggio in sé. Queste sono davvero maschere, senza nessuna consistenza psicologica, che portano avanti un tema, abbandonando ogni intenzione di istituire una peripezia.
Ancora una volta, in questo tuo ultimo lavoro, il linguaggio svolge un ruolo molto importante. A rete sembra che mostri qui uno scarso interesse verso la forma drammaturgica. Non ti curi troppo di organizzare il materiale dentro strutture compositive assimilabili a quelle classiche o tipiche della commedia e del dramma. Usi blocchi di testo abbastanza autonomi l’uno dall‘altro, anche se poi ad un certo livello si possono trovare rispondenze, iterazioni e ribaltamenti. Nei confronti delle convenzioni del «genere» ti concedi parecchia libertà. Svolgi una sequenza, poi un‘altra e quindi un‘altra ancora. La stessa cosa si può dire per i temi. Li affronti, li lasci, poi li riafferri. Il modello potrebbe essere una partitura musicale non troppo soggetta a vincoli tradizionali. Insomma, c’è ulna intelaiatura che non accetta di subordinarsi o conformarsi a idee correnti e forme sedimentate e cristallizzate di teatro. Vorrei dire che opti per una forma debole.
Credo che ciò corrisponda sul piano teatrale a quello che ho cercato di fare sul terreno poetico e narrativo. I miei testi poetici anziché svilupparsi in forma coerente – sia pure nella coerenza lirica – tendono a frantumare il discorso non solo nella sintassi di superficie, ma anche nella sintassi profonda, nei passaggi da una immagine e da una proposizione all‘altra. Così i capitoli di Capriccio italiano e ancora di più Il giuoco dell‘oca sono tessere buttate a caso. (In quest‘ultimo addirittura l‘ordine viene sorteggiato). E, proprio partendo dal carattere fortuito del Giuoco dell‘oca, Ronconi si è rivolto a me per commissionarmi l‘adattamento dell‘Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, in cui, sotto un intreccio percepito come unitario, ho disvelato un continuo raccontare, abbandonare e riprendere varie storie, che alla fine diventano come un labirinto dove smarrirsi in modi stabilizzati. Così anche qui ci sono ragioni per cui da un episodio si passa ad un altro, ma non si rispetta la logica che governa la tradizione del racconto drammatico, secondo la quale si parte da un punto e ansiosamente si aspetta dove si va a finire. L’attesateatralepuòesseremoltiplicatadalfattochenessuna delle mete eventualmente prevedibili è tenuta a realizzarsi perché la frustrazione di questa è continua. Bunuel è un maestro in questo senso, segnatamente nei suoi primi film. Quando si capiva perché a una inquadratura o a una sequenza ne seguiva un‘altra, allora lui e Dalì l’abbandonavano. Mica si pensa a una cosa e poi si rimescolano le carte. Si rimescolano le carte subito.
Possiamo dire che nella costruzione del tuo testo è soppresso lo sviluppo lineare.
Quando scrivo un testo non so come finisce. Non esiste nessun piano di esecuzione. Quando ho cominciato questi Sei personaggi. com non sapevo bene come avrei continuato.
Aspettavi anche tu che i Personaggi ti facessero visita?
Il teatro ha dei caratteri quasi di alienazione. Un attore dice una battuta, ma non la costruisco perché poi arriva quell‘altra battuta. Aspetto dalla penna che cosa diavolo dica l‘altro. Se qualcuno mi avesse detto che avrei messo un pezzo della Tasca, avrei giurato di no. Non lo prevedevo prima. Ma a un certo punto ho trovato che funzionava benissimo Mi cadea fra le braccia e l’ho usata.
Anche quest’ultima fatica drammaturgica dimostra che tu. lavori secondo procedimenti di intertestualità. Intervieni su materiali tuoi propri o di altri, riprendi situazioni e battute già usate. Piuttosto che ambire a una originalità. assoluta, spesso ti va di operare attraverso varianti, spostamenti, decontestualizzazioni, immissioni in nuovi contesti di materiali preesistenti, talvolta anche in modo da cambiarne il senso.
La ragazza è presso Madame Sosostris, che sostituisce Madama Pace. Non più dunque un ambiente di mode, ma una chiaroveggente che legge le carte. 11 motivo prolifera poi per conto suo. Si collega alle cartoline, arriva fino a quella megacartolina terminale che è Il grande masturbatore di Dalì. Una delle idee che mi hanno attraversato la testa è l’episodio del Fascino discreto della borghesia di Bunuel, quando padre e madre vanno ai Commissariato per denunciare !a scomparsa della ragazza. Qualcuno dà delle cartoline pornografiche alle bambine. Invece, quando la cinepresa le fa vedere, sono immagini dei più noti monumenti di Parigi, dalla Tour Eiffel al Sacré Coeur. Queste cartoline esistono veramente. È indicato anche lo stampatore. Sono in vendita al Museo erotico di Madrid, dove io le ho acquistate. E un Museo serio, legato alla municipalità di Madrid, che vende cartoline di opere d’arte con carattere erotico. La ragazza del mio «travestimento» si presenta come una fanciullina sedotta e insidiata, ma poi rovescia tutta una serie di titoli di pornofilm e di annunci economici a sfondo erotico. Non ne ho inventato uno. Un giorno ho preso da un quotidiano genovese alcune inserzioni relative a massaggiatrici, accompagnatrici, prestazioni varie, e alcuni titoli di film a luci rosse in programmazione. Poi ho fatto un collage, in modo che si oscillasse dalle cartoline erotiche agli annunci economici e titoli di pornofilm. In più ho inserito questi inciampi grotteschi come il vov.
La parte che si riferisce alle citazioni bibliografiche può sembrare una resa a un vezzo professorale, una esibizione di cultura. Invece, se bene inteso, è un passaggio molto divertente. Con i riferimenti alle pagine, agli anni e ai luoghi di edizione, agli stampatori del Dizionario storico del lessico erotico italiano riesci a produrre efficaci effetti comici.
Mi pareva gustoso elaborare in questa direzione il momento in cui il Padre va a prendere la Figlia a scuola. Il clima scolastico è rimescolato con le opere d‘arte delle cartoline. Le citazioni erotiche vengono dunque bene. E un modo per poter affrontare il tema dell‘incesto scaricandolo dell’aura e trattandolo invece molto bassamente e comicamente, senza tuttavia perdere quello che di perturbante c’è nella storia. Tutto è giocato sull‘ambiguità. Perché da una parte la ragazzina sembra una «bambinina», dall’altra invece sa il fatto suo, è disinvolta. Ho voluto rompere con un modello unitario e misurarmi invece con tutte le possibilità di un’immagine femminile ai giorni nostri, con una ragazzina che attraversa tutto quello che ormai le viene gettato addosso e messo a portata di mano dal mondo contemporaneo.
Una ragazza di oggi non è certo una ragazza di allora, ai tempi di Pirandello. Ha una consapevolezza diversa, è mutato il mondo circostante, conosce molte più cose della vita.
A me non interessa il naturalismo mimetico Come amo fare in prosa o in versi, raccomandando che gli indirizzi siano corretti, le date giuste, i nomi dei ristoranti e degli alberghi esatti, anche in questo pezzo per la scena i dettagli sono precisi, ma il teatro fa tutto. Il teatro non è più solo quello che ha il modello nella fotografia, nel cinema e nella televisione. Il modello ormai è decostruttivo. Si cacca qua e là, si salta da una cosa all‘altra. Tutto è preciso tecnologicamente, prelevato dal quotidiano, però tutto è ricomposto. Mi viene in mente ancora Brecht, i siparietti e la rottura della continuità, per cui ogni episodio sta a sé.
Però anche lo straniamento si è caricato di aura nel tempo. I cartelli, le scritte, i siparietti, il colore grigio o bruno, l‘orchestrina a vista, sono diventati una «maniera», una retorica. Dallo straniamento come metodo per rappresentare criticamente il mondo si è passati allo «stile». Il Berliner Ensemble è divenuto l‘agente di questo processo di museificazione.
Indubbiamente c‘è stata una monumentalizzazione di Brecht cui in Italia può aver contribito anche Strehler. Brecht può aver prodotto quell’effetto intimidatorio che lui rimproverava a certi classici. Secondo me, Walter Benjamin ha capito bene Brecht. L’effetto di straniamento coincide con gli effetti di montaggio.
Anche la riproducibilità tecnica su. cui puntava molto Benjamin per connotare una nuova funzione dell’opera d‘arte ha prodotto aura.
È vero. Lo strumento tecnologico è diventato auratico. «L’ha detto la televisione», «l’ho visto in televisione», sono espressioni correnti. Il compito della ricerca teatrale è usare tutto quello che la tecnologia può offrire, anche come repertorio di immagini e di tecniche empiriche e anche come mondo di cui si può discorrere, deprivandolo dell‘aura. Possiamo giocare su un onirismo che non può più essere quello surrealista, ma va straniato. oggi possiamo recuperare questi meccanismi e farli funzionare davvero. Quanto Breton punta sulla meraviglia e la rivelazione di mondi irraggiungibili, con un onirismo auratico, tanto questo qui è un onirismo squallido del sogno, che non significa più nulla, salvo a riferirlo all‘analista, cosa che nessun surrealista avrebbe mai fatto.
Potremmo definire la neoavanguardia come un’avanguardia «fredda» rispetto alle avanguardie storiche che sono invece «calde».
Direi di sì. E spiego in quale senso. L’avanguardia è correlata alla borghesia. La prima avanguardia è il Romanticismo. Da allora, il passato non è più un mondo cui fare riferimento in maniera canonica. Questa è la vera crisi del «canone». È morto il modello dell‘Ancien régime. Non ci sono più regole ma una pulsione anarchica. Se si vuole continuare a credere che il mondo sia decifrabile, esso ha una decifrabilità che però non è più un‘ipotesi logica, che si articola con ingenuità progettuali, ma è il divenire stesso della coscienza con le sue esplosive contraddizioni. L‘Io è una parte estremamente fragile sull‘oceano dell’Es che governa le nostre azioni. Il compito è proprio portare la ragione nella sfera del soggetto come nella sfera del mondo. Riuscire a rappresentare criticamente lo stato delle cose.
Nel tuo testo la componente erotica è piuttosto forte. Ma a mio parere non è soltanto un oggetto del discorso, vale a dire un dato di rispecchiamento, ma anche un elemento di comunicazione.
Essendo oltre che marxista anche freudiano, non posso negare che considero la libido molto importante. Ho grande stima per Groddeek, per il quale la pulsione libidica è fondamentale. La nozione di Es mi viene da Groddeck. Si potrebbe effettivamente dire che c’è una ossessione erotica nei miei testi. Mi viene in mente quel tale che mostrò una riproduzione di Guernica a Picasso e poi gli disse: «Questo l’ha fatto lei», e il pittore rispose: «No, l’avete fatto voi». Se guardo alle immagini da cui sono continuamente assalito, alle copertine dei settimanali, ai manifesti, alle trasmissioni televisive, dico: «Non l‘ho fatto io, questo». Ci possono essere spettatori pronti a denegare, ma ormai esiste una presenza pervasiva del sesso nella nostra società. Viviamo immersi nel sesso. Groddeck sostiene che c‘è qualcosa di costitutivo nella comunicazione e nell‘esperienza umana legato al sesso. Da una parte c’è il mercato che si è impadronito del sesso e lo ha mercificato, dall‘altra un potente sistema di censure. Altre culture viveva-no il sesso in maniera più esplicita e diretta. Il mondo borghese vive di censura.
Deleuze e Guattari hanno descritto il soggetto come una macchina desiderante. Da qui discendono elementi li disordine e di discontinuità nei confronti del discorso del potere. Il sesso diventa cioè anche una via alla rivoluzione. È esagerato tutto questo per te, anche se, come si è già rilevato, il sesso occupa un largo spazio nella tua produzione?
La tendenza alla mercificazione del sesso è molto vistosa ormai. Io quando metto in luce la presenza di questo de-mento non rincorro nessuno scopo scandalistico. In realtà siamo allo scoppio di molte contraddizioni. Possiamo man-giare bene, ma circola una gran quantità di mucche pazze. La salute è perfetta, ma l’Aids sta divorando un intero continente, l’Africa. Inneggiamo alla libertà sessuale e siamo angosciati di fronte al crimine e alla perversione sessuale perpetua. Le contraddizioni si moltiplicano nel capitalismo. C‘è l’apologia della famiglia, ma la maggioranza delle persone sposate che conosco non sta con la moglie o con il marito. Mari diceva: sono i borghesi che stanno rovinando la famiglia. Lo slogan «Fate l‘amore non fate la guerra» è servito a far vendere magliette e distintivi, come l’effigie del Che Guevara.
Sei un fautore del teatro di parola. Anche Pasolini si è richiamato al teatro di parola. Ma in lui la parola si accompagna a un tono sostenuto e solenne. In te alla fine, come si è detto, l’alto se non è congiunto al basso non risulta interessante.
Il teatro di Pasolini si fonda su una parola di ambizione poetica. Io ho sempre insistito su una parola concreta e gestuale. Prendi Storie naturali, che si svolge al buio, ed è stato accusato ingiustamente di essere solo teatro radiofonico: in realtà lì, nella parola, passa una presenza corporea. Io punto sulla parola, ma su una parola teatrale. Anche quando scrivo poesia, penso a una esecuzione del testo poetico. E quando scrivo un romanzo, penso a un testo che possa essere letto ad alta voce.
Non a caso hai scritto testi come Traumdeutung costituiti da partiture vocali. La parte affidata agli attori corrisponde a uno spartito. Qualcosa di analogo si può sostenere a proposito di K e di Protocolli. Per molti versi anche Sei personaggi. coni è una partitura.
L’idea di Andrea Liberovici era di fare Sei personaggi in cerca d‘autore. Nei suo progetto, rispetto ad altre nostre precedenti collaborazioni, si era riservato questa volta solo il ruolo del regista. Quando però si trovò di fronte il materiale che io avevo apprestato, la vocazione musicale, che in lui è assai forte, prese ilsopravvento. La parte musicale cominciò ad allargarsi. Se io scrivo un testo che non è un libretto, non penso a una interpretazione con la musica. Ma, messo nelle mani di un musicista, quel testo tende a trasformarsi in occasione musicale.
Per puntualizzare un risvolto del teatro di parola, ritengo si possa aggiungere che quando tu parli di commistione di alto e di basso, per te il basso non coincide con il popolare, la lingua degli istinti, l’emergenza dello scatologico. Insomma rispetto a Rabelais e anche alla cultura carnevalesca medievale che tante volte evochi c’è una bella differenza– A mio avviso, il basso cui tu guardi è soprattutto il basso della comunicazione standardizzata, della lingua di massa, dei cliché giornalistici o televisivi, della chiacchiera collettiva. I termini e i sintagmi prelevati da questo serbatoio ti piace collocarli qua e là in posizione strategica, in modo che acquistino risalto, per la loro dissonanza o estraneità rispetto a un contesto caratterizzato da una gestione linguistica più normalizzata.
Cerco di mettere insieme varie funzioni. Alto e basso si mescolano. Naturalmente il basso prevale, occupa il proscenio.
Sì, ma quando usi termini come «mini», «longuette», «dreadlocks», «cubista», «mondo globalizzato», non fai ricorso a elementi puramente descrittivi. Lavori su livelli di lingua che producono spaesaanento. E’un parlato non in presa diretta, ma molto virgolettato e citato. E’ notevole il décalage tra questa lingua così attuale e la lingua senza tempo del resto, la lingua delle azioni importanti che il testo include e svolge, la lingua della vicenda e della convenzioni teatrali. Anche sotto questo riguardo ti allontani da Pirandello.
Pirandello deve usare un italiano ancora molto scritto e non parlato. Così ne sortiscono effetti di goffaggine. Io sostengo che Pirandello ha da guadagnare dal trascorrere del tempo. Nel futuro gli effetti libreschi si attenueranno. Il popolare come tale a me non interessa. Mi interessa il linguaggio parlato. La lingua della comunicazione quotidiana ha una forte presenza in generale nei miei testi. Accanto, c’è una lingua oniroide, una sottolingua, una lingua dell’Es non ancora filtrata dal controllo intellettuale. Uso una lingua inesistente, poco rispettosa della sintassi, della grammatica e della logica.
Liberovici ci ha messo molto del suo nella messinscena che ha realizzato. Ha compiuto un‘operazione simile a quella fatta da Weill sul copione dell‘Opera da tre soldi di Brecht. Vale a dire ha accentuato aspetti «gradevoli» in un testo che è anche molto «sgradevole», per usare una nomenclatura cara a Shaw.
Un riferimento a Weill c‘è, perché Andrea è stato molto impressionato nel vedere recentemente Mahagonny. Fresco di questa impressione, si è domandato se era possibile ripartire da li. Io non mi sono tirato indietro, anzi ho suggerito qualche soluzione. Il tango per la parte parlata in spagnolo, per esempio. Dà un colore che va bene con queste discronie che ci sono, per cui si va dall’età di Pirandello ai giorni nostri. Naturalmente la sua è un‘interpretazione. Ha fatto qualche spostamento di battute fra Autore e Padre. In sede di prova gli è capitato di toccare ancora qualcosa d‘altro. Ma prima della definitiva andata in scena, io ho concordato un testo che posso considerare una redazione ne varietur.
Da quanto dici capisco che il testo per te non va difeso dall‘intervento del regista, ma affidato con convinzione a esso. Poi lui svolgerà il suo compito, che è principalmente quello di darne un’interpretazione. Insomma non ti preoccupi troppo che sia distorto lo spirito del testo. Io al contrario di molti, che spesso parlano di uno spirito del testo che è stato salvato anche se la lettera è stata violata, sono convinto che i testi non contengano uno spirito profondo. Questa idea della pièce incinta, da cui andrebbe estratta la sua unica, legittima e corretta messinscena, è una pretesa insensata.
La parola teatrale e proprio questa apertura. Posso capire che un autore soffra che una parola sia letta in un modo o in un altro. L‘importante però è che il testo, comunque messo in scena, caschi sempre in piedi, come succede con Shakespeare. Il testo deve possedere una sua sorta di resistenza. Questa resistenza non è fatta per impedire le interpretazioni, ma per permetterne tante e tali che siano contenute potenzialmente nel testo. Non c’è nessuno spirito del testo. Non c’è software, ma solo hardware, di cui ognuno si dà pena. E accade tutto nella messinscena. Il teatro ha sempre trafficato con una possibilità di rimanipolazione. Sì, il grande teatro è soprattutto hard.
Non mi sembra che i tuoi testi presentino una musicalità simile ai libretti d‘opera che venivano scritti o adattati per servire la musica. I tuoi testi non sono materiali di servizio, hanno una loro singolare fisionomia e consistenza. Poi, certo, quando si tratta di metterli in scena, c‘è una grande disponibilità a lasciar fare agli altri, cioè al compositore, al direttore d’orchestra, al regista. Ma tutto ciò concerne il momento della esecuzione, sul quale non intendi di solito esercitare un potere. Eppure tu hai una ottima preparazione musicale.
Per quanto riguarda la mia storia, già l‘ho confessato altre volte: il mio sogno era fare il danzatore. Poi sono passato a studiare il pianoforte, ma ho dovuto smettere per problemi di salute, che in realtà si sono rivelati inesistenti. Alla fine, quindi, la scrittura è stato il surrogato di questa passione. La mia attenzione alla musica è enorme. Ma la mia competenza dal punto di vista tecnico anziché progressi ha fatto regressi. È come una lingua che non si parla più. Non ho più eseguito, non ho più letto testi. Nella scrittura c’è dunque una parte musicale e una parte teatrale. La mia prima vocazione è stata la danza, ovvero una presenza scenico-gestuale collegata alla musica. Quanto alla musicalità della scrittura, certamente non si trova nulla della melodicità e dell‘armonia tradizionale. C’è invece una musicalità tutt‘altro che eufonica e armoniosa, ma anzi spesso aspra, sgradevole magari al primo ascolto, per chi non abbia seguito l‘evoluzione del linguaggio musicale. C‘è stata una grande sintonia con Luciano Berio, perché lui incarnava ai miei occhi un tipo di elaborazione musicale di cui io cercavo l‘equivalente a livello della scrittura e del discorso verbale. Posso accettare anche elementi melodici, tradizionali, ma solo come una sorta di metadiscorso, citazione, contaminazione. E la stessa cosa che faccio quando scrivo endecasillabi, ottave o terzine.
Il finale, con tutte le disposizioni per la chiusura, in parte riporta al dramma di Pirandello sia pure manipolato, in parte però è una chiusura un po’ strana per un testo che non vuole essere ingabbiato nel metateatro.
La chiusura non chiude, è talmente un finalino appiccicato. Si cita la convenzione, il vecchio modo di chiudere. Tanto è vero che ho inserito la battuta «La tela, la tela», che non sento come un elemento drammatico, ma come un rinvio a un teatro di burattini. Lascio accese le lampadine, c’è il rischio che qualcuno inciampi.