RAP E POESIA
Edoardo Sanguineti
Nella tipologia dei rapporti di collaborazione fra poesia e musica ci sono due polarità fondamentali: da un lato c’è il caso di uno scrittore che, senza pensare assolutamente alla musica, scrive un testo, che un musicista utilizza, perché lo giudica adoperabile ai suoi fini espressivi, stimolato oltre che dall’aspetto tematico, dall’aspetto dell’organizzazione linguistica; dall’altro lato esiste invece il caso di una collaborazione che nasce perché il musicista chiede ad un autore un testo che sia approssimativamente scritto; poi ci sono i casi intermedi, in cui l’autore propone dei materiali che ha già elaborato e che il musicista sceglie liberamente. Il mio lavoro sul rap con Andrea Liberovici appartiene a questa sorta di terza via: non mi è stato chiesto il permesso di musicare testi determinati e nemmeno di scriverne uno per l’occasione, ma piuttosto di collaborare ad un progetto. Io ho proposto vari materiali preesistenti, altri sono stati cercati da Liberovici stesso fra i miei scritti, e ci siamo accordati su una relativa libertà d’uso. Credo che questo modello collaborativo possa essere interessante, poiché non si tratta più né di un’idea nata su commissione, né dell’utilizzazione di un testo concepito al di fuori della musica, ma di un lavoro di un musicista su dei materiali poetici che gli vengono messi a disposizione e che può riorganizzare secondo le proprie esigenze.
In realtà, la mia attenzione alle sperimentazioni che coinvolgono musica e letteratura non è nuova. Ho incominciato a lavorare in collaborazione con musicisti all’inizio degli anni Sessanta, segnatamente con Berio. Berio è forse il musicista che meglio incarna la mia idea di collaborazione, che si è prolungata fino ad oggi, con episodi qualche volta anche lontani nel tempo, ma senza che mai si rompesse una linea di continuità, anche perché è accaduto che, pur modificandosi le nostre poetiche e le forme del nostro linguaggio com’è naturale in una ricerca, ci siamo mossi sempre con qualche simmetria: i problemi, sia di linguaggio poetico si di linguaggio musicale che si ponevano, presentavano spesso delle analogie, pur nell’ovvia differenza di modalità comunicative piuttosto eterogenee. Con Berio e con altri musicisti, il lavoro era di volta in volta mutevole, ma aveva la costanza di appartenere sempre a quel genere di musica che consideriamo “grave”, seria, legata al teatro, alla sala da concerto, o anche a soluzioni cameristiche, ma lontana dalla cosidetta pop music, vale a dire da una musica di più largo consumo, che usa modalità di comunicazione popolare, nate o divenute tali. Questo ambito mi ha sempre appassionato, dapprima attraverso le suggestioni del jazz, poi con lo sviluppo del rock o di altre forme più recenti, dalla discomusic alla posse. Oltre a questo interesse specifico, quando sottoposi a Liberovici alcuni di miei materiali, ero mosso dall’idea, che lui stesso condivideva, che il rap fosse prima di tutto una tecnica evidentemente ritmica e musicale, ma anche una tecnica dal discorso verbale, un modo paradossale per “recitar cantando”, in cui l’importanza del testo è molto forte e permette di utilizzare anche dei componimenti che non abbiano una preordinata struttura ritmica, ma che si costruiscono attraverso giochi verbali. Io ho fatto uso, almeno in molti miei testi, dell’alliterazione, della rima ribattuta e questo si prestava bene ad essere trasformato in rap, con poche modifiche di replica, di iterzione, di variazione. Dopo aver accolto la proposta per un rap, suggerii a Liberovici di andare oltre, di pensare ad uno spettacolo in cui il rap rimanesse la struttura essenziale, ma accanto ad esso venissero usati testi musicali tradizionali – per violoncello, ad esempio – poi registrati in modo da creare, sia da un punto di vista scenico e gestuale, sia da un punto di vista verbale, una grande poossbilità di movimenti diversi nelle direzioni più varie. Essendo soddisfatto del risultato ottenuto, lo stesso Liberovici pensa ora di curare e ampliare questa forma e creare uno spettacolo ancora più ampio, innestando ulteriori elementi (come la canzone o alte modalità) altrettanto eterogenei rispetto al materiale preordinato. Questo lavoro ha quindi una struttura già organizzata, ma è anche un lavoro in progress perché suscettibile, nelle intenzioni del musicista, di continui sviluppi.
Da un punto di vista tematico, Liberovici era poi partito da un soggetto su cui potevo offrire molto materiale: il motivo del sogno, perciò l’ho lasciato libero di montare i miei testi e di giocare – come io auspicavo che potese avvenire – sulla congiunzione di parti eterogenee fra loro, ma che in una logica onirica ritrovavano un loro senso di montaggio. Del resto, molta della pop art, intesa non soltanto nel senso pittorico, ma di arte pop, nell’accezione in cui si impiega questa parola quando si parla oggi del folclore di massa, è degna di grande attenzione; e c’è uno scambio continuo, qualche volta consapevole qualche volta inconsapevole, tra le espressioni tradizionali d’arte e le espressioni di massa legate al consumo e alla cultura dei giovani. In fondo, si ritrova in questo rapporto qualcosa che la tradizione ha sempre conosciuto e che poi ha un po’ perso se si guarda al modo in cui la musica del passato ha operato con ciaccone o gagliarde o minuetti o valzer, si vede che tutta la musica più seria, qualche volta persino seriosa, ha utilizzato delle forme di danza che erano consumate contemporaneamente dalla cultura “popolare” del tempo. In seguito c’è stata una scissione o almeno una maggiore difficoltà di relazione tra questi elementi, anche se l’influenza del jazz sulla musica seria, ad esempio, ha toccato musicisti come Debussy e Stravinskij e credo che questa forma di contaminazione non solo possa continuare, ma possa diventare più esplicita e consapevole, e più programmatica di quanto sia accaduto nel Novecento.
Anche la scrittura letteraria e il lavoro sulla parola potrebbero trovare in questa sorta di ibridazione una spinta ulteriore per rompere con il “poetese” in senso negativo, cioè il gergo lirico, la selezione verbale verso realtà superiori dotate di aura, e stimolare maggiormente ad un impiego poetico del linguaggio quotidiano di tutto quello che è il mondo della prosa moderna, della tecnologia, delle feconde mescolaze di lingue diverse. D’altra parte è importante ricordare che in una certa letteratura americana all’epoca della cultura beat, ci sono stati autori, come Kerouac e Ginsberg, che dichiaravano di essersi ispirati molto al ritmo del jazz o alla pop music, proprio come ritmo di scrittura; ci sono esempi, in poesia come in prosa, di una letteratura che ha subìto questo influsso della ritmica musicale, sul terreno del romanzo e della narrativa, come su quello poetico e credo che, in questa direzione, si possano ottenere degli sviluppi ancora più ricchi.
Nel valutare la situazione italiana, occorre però fare le dovute differenze. Gli esperimenti degli anni Cinquanta e Sessanta per creare una canzone d’autore o lo sviluppo dei cosidetti cantautori hanno dato risultati assolutamente discutibili. La tipicità della canzone italiana appare molto imprigionata entro limiti di melodicità tradizionale, per cui diventa o tardo melodramma riciclato, nel migliore dei casi, o tarda romanza da camera. Ciò non toglie che ci siano stati anche dei risultati positivi fra gli autori (perché Paoli o Conte hanno forse aperto delle strade) e degli interpreti piuttosto straordinari, anche dal punto di vista del costume, come Mina o Patty Pravo. Tuttavia un limite è sempre stato la prevalenza di melodicità e poeticità; anche i tentativi di scrivere testi per canzoni fatti da Pasolini, da Calvino, da Fortini, persino da Moravia e Soldati, seppure molto episodicamente, non hanno poi trovato conferma né continuità, perché in fondo la vera musica popolare aveva altre direzioni. L’intervento del jazz e del rock è stato invece veramente un fatto insopprimibile nello sviluppo del linguaggio musicale, il solo che possa trovare equivalenti nella sperimentazione letteraria. Accanto al “poetese”, c’è stato un “canzonettese”: l’Italia purtroppo è il paese di Sanremo, per dire tutto in una formula, e questo ha rappresentato e rappresenta un limite molto forte.
Anche dal punto di vista dei contenuti, delle idee, benchè la canzone abbia avuto un pubblico larghissimo, in sostanza è sempre rimasta prigioniera di atteggiamenti, per così dire, piccolo-borghesi. Molta della protesta orientata in quel senso è rimasta imparagonabile alla rottura espressiva proposta da tanta musica anglosassone, dai Rolling Stones ai Sex Pistols, per esempio, in cui il radicalismo e anarchismo hanno raggiunto una violenza che da noi è rimasta praticamente sconosciuta o veramente episodica o eccezionale. Il limite dela canzone italiana è davvero anche un limite ideologico di classe. Tentare l’esperimento del rap significava per me uscire davvero da questi confini, passare davvero ad altro; fare un lavoro, con un musicista, in una direzione che non rimanesse poi nemmeno prigioniera della forma del rap, ma la utilizzasse come una sorta di riferimento fondamentale, nell’organizzazione della struttura di un’esperienza spettacolare, senza rinunciare a nessuno degli elementi che oggi, sia la parola, sia il suono, possono proporre. Io tendo sempre di più ad insistere sul momento anarchico come momento di pulsione della grande arte critica del Novecento. Se questo momento ha trovato incarnazione, non è stato tanto nella forma della canzone “all’italiana”, quanto piuttosto nell’esperienze di certo rock violento e oggi, semmai, del rap e di altre espressioni di questo genere.
Edoardo Sanguineti