IL PRIMATO DELL’« ORAZIONE » : RAP
di Gianfranco Vinay
La perfezione dello stile recitativo si conseguisce non tanto con la vaghezza, bizzarria o maiestà dell’aria […] quanto con quella varietà et acconciamento di modulazione che più s’accosta al nostro comune modo di ragionare.
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Il mio interesse per il ritmo del parlato-recitato nasce nel 1987 durante le prove di uno spettacolo con la regia di Giancarlo Sbragia. Sbragia fermò un’attrice che, si dice in gergo, cantava le battute e le spiegò che per creare interesse non doveva cercare intonazioni, note, gorgheggi, ma semplicemente creare degli ostacoli al ritmo, spezzarlo sincoparlo, come fa naturalisticamente il pensiero nel suo formularsi e svolgersi (incontrando frammentazioni, sospensioni, accelerando, ecc.) prima di diventare suono compiuto.
Quattrocent’anni, suppergiù, intercorrono fra queste due citazioni. La prima tratta da iI corago o vero Alcune osservazioni per metter bene in scena le composizioni drammatiche . La seconda da Recitar cantando, testo prolusivo di Andrea Liberovici al libretto di Rap , poetato (ma non in «poetese») da Edorado Sanguineti e messo in musica e in scena dallo stesso Liberovici. Preoccupazione comune di quest’ultimo e dell’anonimo autore del Corago (forse
Pierfrancesco Rinuccini, figlio di Ottavio, librettista di Jacopo Peri) : ricalcare con artifizi musicali l’espressione del pensiero umano, evitando però «il tedio del recitativo». Ovviamente altra cosa è l’odierno «pensiero nel suo formularsi e svolgersi» rispetto al «comune modo di ragionare» dei secenteschi autori dei primi drammi per musica, che traevano i loro modelli dall’Aminta e dal Pastor fido. La «varietà et acconciamento di modulazioni» con cui quei
musicisti cercavano di animare il recitativo consisteva in soluzioni metrico-ritmiche, armoniche e melodiche che intendevano imitare naturalisticamente le inflessioni dell’eloquio e le risposte emotive alle immagini poetiche.
Imitare naturalisticamente «il pensiero nel suo formularsi e svolgersi […] prima di diventare suono compiuto» significa invece esplorare la zona di confine fra il pensiero pensato e il pensiero espresso : il momento in cui l’immagine si stacca dal tronco dell’archetipo e l’espressione si individualizza. Qualcosa che ha più a che fare con l’inconscio e le associazioni libere che con i meccanismi del pensiero formalizzato e con le fluttuazioni emotive. Qualcosa che deve comunicare l’imprevedibilità delle associazioni fantastiche e l’inarrestabilità del flusso, che deve fondere assieme principi apparentemente opposti come libertà e automatismo mantenendosi nella più assoluta ambiguità semantica.
Adesso seguo l’indice. Ma stavo per dire che seguo la freccia. Perché ormai, l’avrai anche capito, ci sono come due frecce, qui. C’è la freccia della freccia micidiale, da una parte, e c’è la freccia della mano indicativa, dall’altra, che dice avanti, e che dice (continua), quasi. Poi c’è l’asta della bandiera, in più, questa, secondo me, non c’entra niente davvero, con questa storia qui, anche se dice, se indica. É un caso, che c’è. FINE [ di Rap]
Colpo di genio drammaturgicomusicale : coniugare Sanguineti con il rap. L’arte dei rapper, che è innanzitutto improvvisativa, consiste in un’affabulazione poetica veloce scandita su formule metrico-ritmiche precise accompagnate da una base musicale ostinata. La curiosità di Sanguineti nei confronti delle manifestazioni del folclore urbano ne hanno affinato la musicalità, trasformandolo in un rapper d’eccezione. L’alternanza di stacchi improvvisi e di catene di rime e di assonanze crea un andamento squisitamente rap:
rotta è l’alta catena ottenebrante turbante di sirena lancinante furfante che ci esorta e che ci scorta, lì alla porta, a mano morta, di nutrici punitrici grassatrici da appendici.
Così inizia Rap, in chiave simil-futuristica e palazzeschiana, e continua alternando glossolalie scatenate a nonsense arguti. Due voci in scena (la voce di Liberovici e quella di Ottavia Fusco, cantante attrice) ed una terza «fuori campo» (la voce di Enrico Ghezzi declamante passi scelti dalla Smorfia, il libro delle interpretazioni dei sogni per il gioco del
lotto). Intercalate, queste voci, a episodi polivocali (cosiddetti «cori») e accompagnati da una «base musicoelettronica sensibile e cangiante. Le parole in libertà di Sanguineti interpretano così un teatro sonoro. Parole che non sono più semplici parole, ma diventano oggetti sonori contundenti («Alta è la turpe tubatura dura di tacchi di tabacchi, di sacchi, di spacchi di almanacchi»), ossessioni foniche («Adesso incomincio che ti dico che l’ho visto subito»),
spesso erotico-sessuali (« protundo un pene proboscidoidesco, urodelico uncino usignolesco : esoftalmico eretto & efficentistico »). Ossessioni che ci minacciano come incubi (« La mia testa è enorme/La tartaruga mi insegue »). Incubi di un’Alice in un Paese delle Meraviglie di fine (secondo) millenio.
Anche Rap (come Alice) è una « storia di metamorfosi » con un bestiario alla Carroll (il coniglio, la tartaruga, il maiale…). Le due voci non sono personaggi, ma voci, appunto, che con un’intonazione enfatica di carattere ora epico, ora sensuale, conferiscono un significato emotivo ad un testo che in realtà è una catena di puri significanti. Come i continui ingigantimenti e rimpicciolimenti di Alice, questo contrasto estraniante mette tosto in crisi il principio di identità soggettiva (verso la metà della pièce teatrale le due voci appaiate declamano : « Dove finisce il mio io / non lo so io »).
Anche in Rap (come in Alice) siamo avvertiti solo alla fine che sconclusioni, metafore ossessive, metamorfosi, apparizioni magiche sono sì una finzione, ma una finzione a suo modo realistica, perché vogliono rappresentare lo scatenarsi del processo onirico. Certo, l’improvviso rallentarsi del tempo e mutar di atmosfera dopo la declamazione delle parole «sarò un seno, il tuo segno, il tuo sogno » così come la prima inserzione di passi tratti dalla
Smorfia, sono segnali, «freccie della mano indicativa», per dirla con Sanguineti, offerte fin dall’inizio, subito dopo la prima smitragliata di rap. Ma solo alla fine il suono della sveglia ci fa capire che di sogno si trattava.
Quest’ambiguità è essenziale per tenerci sospesi in un antimondo che non sappiamo e non dobbiamo identificare :« Adesso incomincio che ti dico che l’ho visto subito, lì in alto a sinistra, il mondo, rotondo, quasi gonfio, incolore, sospeso dentro il vuoto, a mezz’aria, giusto sopra la schiena di un asino ». Mondo alla rovescia? « Palude definitiva » ? Certamente campo delle libere associazioni fantastiche e degli scambi simbolici, ma anche specchio deformante della memoria poetica. Le filze di significanti e di allitterazioni compresse negli endecasillabi sono anche parodie di modelli celebri. Si confrontino : « Rotta è l’alta catena ottenebrante » e « Se fossi sesso di sensato sasso » con «Rotta è l’alta colonna e ‘l verde lauro» (Petrarca – Canzoniere – Sonetto 269) e « S’i fossi fuoco, arderei ‘l mondo » (Cecco
Angiolieri). Altre volte si tratta di argute allusioni letterarie. Se il cappellaio del verso « ero il cappello (del cappellaio cappellano, in amore) » può rinviare al cappellaio matto di Alice, « il cappellano in amore » non può esser altri che Andrea Cappellano, l’autore di quel trattato, De amore, che codificò l’amor cortese.
Il rap è uno degli ingredienti – certamente il più aggressivo e dinamico – di cui Liberovici si serve per articolare la struttura drammaturgicomusicale di questo cauchemar. Ma Rap non è soltanto rap. É anche recitazione, canto, canto abbinato alla recitazione, polifonia e antifonia verbale, colonna sonora, folk, classico… Il rap si trasforma così in filastrocca, giullarata rock, teatro dell’assurdo.
Gianfranco Vinay