Per il seguito di stanze nelle quali agiscono i personaggi de I Figli dell’Uranio, un progetto di Saskia Boddeke e Peter Greenaway, Andrea Liberovici ha composto delle musiche che, tutte insieme, potrebbero essere lette come una suite. Sono tali nella successione (nel nostro caso in realtà compresenza) di musiche diverse, ma in relazione fra loro; lo sono perché i vari “attori” su quelle musiche si muovono, abitano lo spazio e mutano la loro relazione con esso (“danzano” dunque); lo sono infine perchè la scena dei Figli dell’Uranio (così come l’ho vista a Napoli nell’aprile 2006) è appunto una suite, una fuga di stanze, quelle ampie e piene di fascino del Palazzo Roccella, sede del PAN, il
Palazzo delle Arti di Napoli. Salito il grande scalone introduttivo, accompagnato dalla voce stentorea del bravissimo Vincent de Rooij che snocciolava ad uno ad uno i nomi degli elementi del sistema periodico, il pubblico poteva percorrere la “suite” di stanze a suo piacimento, in senso orario o antiorario (forse musicalmente si dovrà dire “cancrizzante”).
Non un’opera dunque, perché di essa mancava volutamente la drammatizzazione del testo, piuttosto si trattava di una serie (suite) di quadri compresenti (così come ci ha abituati tanto teatro del Novecento e oltre) che ogni spettatore poteva mettere in un ordine ad libitum: e mi pare che anche in questa mobilità/modularità di successioni si ritrovi qualcosa delle suite. Nell’economia generale dello spettacolo la musica di Andrea Liberovici svolge un ruolo essenziale: più che commento alle singole scene essa è l’atmosfera dell’intero lavoro, l’aria che tutte le stanze respirano, l’elemento che, discreto ma presente, rende “contemporanei” Newton e George Bush, Marie Curie e
Gorbaciov, il misterioso Moroni e la dolente figura di Oppenheimer.
Ogni stanza ha una sua caratterizzazione melodica: in quella di Gorbaciov il frammento melodico del violoncello “è” il dramma della scomparsa della moglie Rissa, mentre il gocciolìo continuo allude, in uno chopiniano iperrealismo, al disfarsi di un mondo. Mi sembra però più importante sottolineare quello che rimane nella memoria alla fine dello spettacolo, e che dura anche alla distanza: cioè la costanza, più che le varianti della musica di Andrea Liberovici: una “suite” come si è detto. Il compositore mette in scena il suo mondo sonoro tutto intero: i prediletti studi di violino e viola (e qui gli archi possono alludere a una parvenza di quartetto o trasfigurarsi nelle filigrane fantasmatiche degli armonici), un contrappunto di fiati di sapore quasi stravinskiano, e poi su tutto l’uso della voce umana nelle ricchezza dei suoi timbri, delle sue emissioni, dal canto spiegato al parlato a una sorta di cantillazione. Sono testimonianze della curiosità onnivora dell’autore che rilegge sotto il suo filtro il passato e la contemporaneità e ne ripropone gli elementi che lo interessano, mescolati con la naturale indifferenza che il bravo artigiano nutre nei confronti delle gabbie ideologiche.
Renato Bossa