Conversazione con Andrea Liberovici, a cura di Aldo Viganò

A.V.
Che rapporto c’è tra il Candido di Voltaire la “soap opera” e il “musical”?

A.L.
La cosa che più mi ha colpito nel Candido di Voltaire è la modernità della costruzione ritmica del racconto, che si manifesta anche nella capacità di trasportare il lettore da un luogo all’altro, farlo viaggiare nello spazio, nell’arco di una frase o di poche parole. Ecco, è proprio da questa suggestione che con Aldo Nove siamo partiti per costruire il viaggio del nostro Candido. Un viaggio fondamentalmente immobile, simile a quelli che possiamo compiere ogni giorno con il telecomando o con la tastiera di un computer, ma simile anche – almeno nel ritmo – a quello raccontato da Voltaire duecentocinquanta anni fa.

A.V.
E la “soap opera”?

A.L.
Abbiamo voluto sin dal titolo sottolineare la natura della nostra operazione, che ha certo ben poco a che fare con i contenuti delle “soap opera” televisivi, ma forse non poco con la loro struttura di contenitore narrativo nel quale continuamente si entra e si esce con modalità che in qualche modo hanno a che fare con un’epica moderna. Le varie scene del nostro Candido sono come dei link su internet o se si preferisce come le caselle del gioco dell’oca: si passa continuamente dall’una all’altra in un articolato percorso fatto di rinvii interni a una struttura narrativa che si diverte proprio a far riferimento a quella della “soap opera”.

A.V.
Poi c’è la musica, che nello spettacolo sembra svolgere un ruolo primario.

A.L.
È vero, il nostro Candido è innanzitutto un “musical”, dove la musica, le canzoni e il suono hanno un ruolo protagonista, concorrendo insieme a evocare la centralità del ritmo nell’originale di Voltaire e a definire situazioni e personaggi.

A.V.
Come è nato questo progetto teatrale che vede convivere sul palcoscenico attori, musicisti dal vivo e tante immagini e suoni registrati?

 A.L.

All’inizio, da lunghe conversazioni con Carlo Repetti, direttore dello Stabile genovese, alle quali da un certo punto in poi ha cominciato a partecipare anche Aldo Nove. C’era l’occasione di Genova Capitale Europea della Cultura che poneva il viaggio al centro tematico delle sue manifestazioni e c’era la voglia di tornare a collaborare con il Teatro di Genova dopo Sei personaggi.com. Prima di focalizzarci su Candido, abbiamo preso in considerazione numerose altre alternative (da Alice a Gulliver, sino a Frankenstein come possibilità di un viaggio all’interno del corpo umano); ma ci siamo trovati ben presto tutti d’accordo a lavorare sul romanzo di Voltaire. Da parte mia, ripeto, proprio per quella dimensione ritmica, quindi già in qualche modo musicale, che mi è sembrato subito di poter individuare nel romanzo.

A.V.
E ciò nonostante ci fosse già l’ingombrante precedente del Candide di Elmer Bernstein?

A.L.
Sono due cose completamente diverse e assolutamente non paragonabili. Se non altro perché Bernstein ha lavorato tutta la vita a un’opera di grande bellezza che si proponeva di essere fedele al racconto di Voltaire, mentre noi ci siamo prese molte libertà narrative proprio per meglio rispettare lo spirito del romanzo, vale a dire il suo ritmo sintetico e la sua capacità di parlare del presente.

A.V.
Qui entra in scena Aldo Nove. Come è nata la scelta di collaborare con lui?

A.L.
Ho conosciuto Aldo prima attraverso le sue opere e poi di persona, quando me lo ha presentato Edoardo Sanguineti. La cosa che mi colpisce di più nei suoi scritti è che quelle splendide parole sembrano assumere maggiore forza quando le si dice ad alta voce. E questa è una virtù propria dei drammaturghi. Gli avevo già chiesto di scrivere per me una breve scena per la serie teatro nei musei. Siamo diventati amici. E il rapporto umano è stato fondamentale per compiere insieme il lungo viaggio che ci ha portato alla realizzazione di Candido: un viaggio anche nel vero senso della parola perché abbiamo scritto il testo spostandoci sovente in giro per l’Italia e per il mondo.

A.V.
In che modo avete lavorato insieme?

A.L.
Sempre insieme, appunto; tanto che è oggi assolutamente impossibile distinguere chi è il padre e chi la madre delle singole scene o delle diverse soluzioni narrative adottate. Molto stimolante è stato soprattutto l’incontro di due diverse esperienze culturali e linguistiche. Quando vedevo una scena o avevo in testa una musica, la raccontavo ad Aldo e lui la traduceva nel suo linguaggio: cioè, in un’altra visione, che a volte precedeva la mia e che comunque stimolava in me nuove proposte, in un continuo gioco di rimandi. Per me è stata un’esperienza affascinante, nel corso della quale sono nati personaggi che diventano musica e musiche che diventano personaggio. Sarà ovviamente il pubblico a giudicare i risultati, ma personalmente sono decisamente soddisfatto perché credo che Candido corrisponda molto bene alla mia idea di musical e di racconto teatrale.

A.V.
Ritorniamo allo spettacolo: qual è il rapporto che vi si instaura tra teatro e musica o tra ritmo e recitazione?

A.L.
Candido porta avanti una ricerca che caratterizza tutto il mio modo di fare teatro e che affonda le radici nella storia del teatro musicale in Occidente. Schematizzando, è una storia che si potrebbe raccontare in questo modo: c’era una volta l’operetta che conviveva con il melodramma lirico, poi arrivarono gli americani che s’impadronirono di questa tradizione (molto italiana) del recitar-cantando e la reinventarono, dandole nuova freschezza e originalità nel musical di Broadway e poi di Hollywood; parallelamente, in Europa, il teatro musicale sperimentava nuove vie sia attraverso la grande musica da che va da Alban Berg sino a Luciano Berio, sia – per quello che ci interessa più direttamente – attraverso il lavoro di Bertolt Brecht e Kurt Weill. Nella prima metà del Novecento, queste due esperienze hanno viaggiato parallele, saldandosi solo in rare occasioni, ad esempio quando Weill si trasferì in America; ma oggi il problema di una loro possibile sintesi circola nella realtà più avanzata di coloro che si occupano di teatro musicale. La domanda che personalmente mi pongo è soprattutto perché non cercare di ritrovare, magari partendo dalla lezione americana, una nuova originalità al musical europeo? Certo è un progetto molto ambizioso, ma nasce dal fatto che culturalmente ed emotivamente io mi colloco esattamente al centro tra il musical di Broadway e il song brechtiano: li amo profondamente entrambi e nello stesso tempo sono convinto che, pur con tutte le sue schizofrenie, la musica sia di fatto un corpo unico. Così del resto è sempre stato: ai tempi di Mozart o di Haydn i musicisti non si ponevano eccessivi problemi nel mescolare i generi e potevano senza complessi prendere un’aria popolare e reinventarla in grandi sinfonie o concerti. È solo con il Novecento, cioè con l’intervento dell’industria e della macchina commerciale anche nel campo della musica, che s’iniziano a creare degli steccati tra i generi, i quali a loro volta finiscono così col produrre tutta una serie di compositori che operano solo dentro a quei precisi confini. Ora, io credo che la musica sia per sua natura molto più libera e pertanto mi piace lavorare mescolando i generi o usandoli per la loro componente individuale.

A.V.
Cioè?

A.L.
I generi musicali hanno storicamente finito col diventare come delle realtà individuali a se stanti. Allora, mi domando, perché non usarli a teatro proprio come tali, cioè farli diventare dei personaggi? Mi diverte molto mettere in relazione i generi musicali, cioè farli agire proprio come se fossero dei personaggi teatrali, farli scontrare,  accoppiarsi, amarsi, dialogare o litigare.

A.V.
Ogni personaggio di Candido tende attraverso questa via a identificarsi con un genere musicale?

A.L.
Non in modo così schematico, ma in un certo senso sì. Per riprendere il discorso precedente sul mio modo di reinventare il musical, io penso e scrivo musica sempre in modo moto mirato sui caratteri dei personaggi. Anche in questo caso sono partito proprio da loro. I nostri Candido e Cacambo sono due giovani venditori di un prodotto chiamato “Nulla” in un “multi-level-marketing”, due tipici figli dell’epoca nella quale vivono. Che musica ascolta Candido e di conseguenza quale canterà? In un paese come il nostro profondamente colonizzato dai modelli musicali americani, per Candido e Cacambo la musica è essenzialmente pop, essendo questo l’involucro sonoro entro il quale sono cresciuti. Ma costatare questo ovviamente non basta, perché pur appartenendo allo stesso tempo, Candido e Cacambo sono sulla scena due personaggi distinti. Il primo sempre aperto al sentimento e quindi disponibile a una componente melodica; mentre il secondo non ha certo il suo candore e la sua ingenuità: Cacambo è un giovane arrivista rampante, molto strutturato nella sua vocazione al successo e pertanto più indirizzato verso il rock. Nulla di mimetico o di banalmente psicologico, certo; ma un libero gioco di associazioni che concorrono a definire i personaggi non solo attraverso ciò che dicono e fanno, ma anche attraverso la musica che gli si addice. Proprio come accade per la Vecchia che, provenendo direttamente dal romanzo di Voltaire ha ormai duecentocinquanta anni, vive come una barbona nel cofano di un rottame d’automobile ed è mantenuta giovane da continui lifting. In un certo senso, si potrebbe dire che la Vecchia deriva direttamente dalle nostre riflessioni sulla possibilità di fare uno spettacolo ispirato a Frankenstein: come il suo corpo è il risultato di complesse sintesi chirurgiche, così anche la sua musica è molto articolata e attraversa un poco tutta la storia della musica, dal tardo barocco al rap.

A.V.
Così come lo racconti sembra che tu usi la musica come un collage di citazioni: in un modo, cioè, che rinvia  all’idea di postmoderno. 

A.L.
Spero proprio di no. Io non cito esplicitamente nulla. Potrei caso mai dire che prendo un po’ dovunque i mattoni che mi sembrano giusti per la costruzione del mio progetto. Nulla a che fare con il postmoderno, se per questo s’intende il mettere insieme cose molto diverse tra di loro come in un patch-work. Personalmente non ho alcun interesse per questo tipo di operazione citazionistica. Per me i generi musicali sono come gli inchiostri o i colori per il pittore o come i vari ingredienti per il cuoco: li uso in funzione del mio punto di vista, li mescolo e li contaminano solo con la finalità di giungere a un qualcosa di assolutamente individuale, non riducibile ad alcuna delle sue componenti.

A.V.
E alla giovane, bella e amata Cunegonda quale musica appartiene?

A.L.
Cunegonda è un ritmo più che una melodia. A lei, in fin dei conti, non appartiene alcuna specifica connotazione musicale. Cunegonda è l’unico personaggio femminile dello spettacolo, perché la Vecchia può essere considerata come il Coro. Da lei ci si aspetta un lirismo che continuamente le nego, accentuando invece suo tramite il cinismo di un certo modo estremo di intendere il marketing. Sottraendole femminilità, ne affermo soprattutto il ruolo della venditrice. Ciò ne fa una ragazza con connotazioni maschili, anche se questo non le impedisce di innamorarsi (“come una pera cotta”, si diceva una volta) quando incontra il primo uomo che le piace veramente. E questo la trasforma anche sul piano musicale, tanto che per la prima volta inizia a cantare con tonalità melodiche.

A.V.
Anche Cunegonda, pertanto, compie un viaggio non solo virtuale, ma tale da coinvolgere la sua intera esistenza. E siccome ogni viaggio è anche un processo di apprendimento, dove vanno infine i personaggi del vostro Candido?

A.L.
Nell’ultima scena, pur da vie diverse, tutti escono dal teatro. Ovviamente, in questa scelta non c’è nulla di polemico nei confronti del teatro in quanto tale, il quale resta ormai uno dei pochissimi luoghi, se non l’unico, in cui si può ancora parlare direttamente dell’uomo e dei suoi problemi. In questo caso, uscire dal teatro significa per i personaggi uscire fisicamente dalla finzione e dal mondo delle apparenze, pirandellianamente riappropriarsi della realtà. Tutto il nostro spettacolo si svolge con i personaggi prigionieri di un diaframma (una quarta parete di tulle) che solo alla fine Candido e Cunegonda possono attraversano, con uno scambio di battute dal sapore beckettiano: «Mi vuoi bene?», «Sì». Si prendono per mano, scendono la scaletta e se ne vanno via dalla platea, mettendo in atto ciò che Candido si era già proposto di fare alla fine del primo atto, quando cantava: «Io me ne vado, vado, via / bye, bye, ehi, ehi, / e qualsiasi cosa c’accada / io me ne vado, vado, via / sarai con me anche se sbaglio strada / se vuoi…». Da parte loro, proprio come in una “soap opera” anche Cacambo e la Vecchia scoprono l’amore, e tramite questo una via d’uscita dal regno della finzione.

A.V.
Mescolando attori in carne e ossa con altri che appaiono solo in video o nella colonna sonora, Candido si propone come uno spettacolo che esibisce le proprie forti valenze elettroniche: qual è la tua posizione nei confronti delle nuove tecnologie a teatro? 

A.L.
Quello che mi interessa non è il computer in sé, ma il rapporto che si instaura sulla scena tra gli esseri umani e i mezzi tecnologici: che cosa succede quando li si mette in relazione, quali nuovi conflitti o esiti spettacolari ne possono nascere? Certo è che lo sviluppo tecnologico ha trasformato la nostra percezione del mondo: l’introduzione dell’energia elettrica e il moltiplicarsi dei mezzi di trasporto stanno lì a dimostrarcelo ancor prima dell’avvento dell’elettronica. È soprattutto questo che mi interessa: interrogarmi sul modo attraverso il quale io, cittadino di questo presente, posso utilizzare o interagire con le nuove macchine a disposizione dell’umanità, senza essere da loro usato. Il mio atteggiamento nei confronti dei prodotti della tecnica non è mai di natura etica: mi limito a prendere atto della loro esistenza e a interrogarmi sulla loro utilizzazione. Per rimanere nell’ambito del viaggio, so benissimo che con il telecomando o con l’uso del computer si può “essere viaggiati” più che compiere un viaggio. Ma è proprio questa consapevolezza che mi rende molto guardingo nei confronti del potere seduttivo dell’elettronica. Quando inizio a lavorare con un nuovo modello di quelle meravigliose macchine che, soprattutto in Francia, si usano per l’elaborazione del suono, la prima cosa che faccio è quello di togliere dal computer tutto ciò che di seduttivo mi viene immediatamente offerto in modo preconfezionato. Oggi i computer sanno fare delle cose meravigliose sul piano mimetico: sia per quanto riguarda gli strumenti musicali, sia i suoni naturali; ma questo davvero poco mi interessa. A me interessano le macchine che fanno le macchine, non quelle che cercano di imitare l’altro: suoni o immagini che siano. E questo riportare le macchine alla loro funzione primaria è un passaggio che può essere anche molto duro e difficile, perché passa attraverso il saper togliere tutto ciò che l’hardware (Marx avrebbe detto il Capitale) ti dà a priori, condizionando fortemente la tua creatività. Comunque, la risposta a questo pericolo di condizionamento, che è un pericolo molto concreto, non credo che possa essere la demonizzazione della macchina, ma che vada ricercata nella capacità di capire quale sia il modo più giusto per servirsene come mezzo di potenziamento espressivo, microscopio dei sentimenti e dell’anima dell’essere umano. Per fare un esempio storicamente fondamentale ed esteticamente compiuto, mi piace ricordare Carmelo Bene e la sua capacità di usare il microfono non solo come mezzo per diffondere la voce, ma soprattutto come sonda per entrare nella profondità delle emozioni umane.

A.V.
In che modo la tecnologia modifica il tuo lavoro di regista?

A.L.
Mi permette di lavorare sui dettagli e sulle sfumature, quindi di comunicare meglio la verità dei personaggi. Con i microfoni, ad esempio, posso lavorare sulla recitazione per sottrazione invece che sull’estensione della voce, realizzando così dei veri e propri primi piani acustici, che senza la tecnologia sarebbero assolutamente impossibili a teatro. È questo il grande paradosso del cosiddetto teatro elettronico: il massimo della struttura tecnologica ha come finalità quella di raccontare le più piccole sfumature dei personaggi.

A.V.
I personaggi di Candido fanno il loro  viaggio oppure, per usare la tua stessa espressione, “si fanno fare il viaggio”, succubi del mondo tecnologico nel quale vivono e che attraversano?

A.L.
I nostri protagonisti sono insieme attivi e passivi in rapporto al viaggio che compiono, e in questo senso sono molto simili a tutti noi quando guardiamo la televisione o navighiamo in internet: siamo contemporaneamente dentro e fuori quello che vediamo e quello che facciamo. È la caratteristica di tutti i viaggi immobili che contraddistinguono la realtà contemporanea. Ricordo che negli anni Sessanta mio padre si scandalizzò molto nell’apprendere che in una fabbrica vicino a Torino si fosse deciso di introdurre le canzoni allora di moda come sottofondo sonoro al lavoro degli operai alla catena di montaggio. Oggi, questo sfondo acustico è un po’ dovunque, dal dentista come nel supermercato. È un modo subliminale per indurre ai viaggi immobili: si fa una cosa e intanto la mente vaga lungo altri itinerari. È insieme un’affermazione di libertà e di schiavitù. Ed è proprio questo quello che accade, come a noi, ai personaggi di Candido, i quali subiscono in più la presenza autoritaria del loro boss, che li spinge a viaggiare per meglio vendere il suo prodotto e la sua visione del mondo.

A.V.
Prigionieri come sono delle macchine, della società e del marketing, i protagonisti di Candido riescono a conservare una propria connotazione individuale?

A.L.
In Voltaire non c’è mai approfondimento psicologico dei personaggi, i quali sono soprattutto dei punti di vista sul mondo: cioè, delle funzioni filosofiche. Con Aldo Nove ci siamo a lungo interrogati su come dovevamo noi comportarci con i nostri personaggi e alla fine, pur dopo molti tentativi anche nel campo di una rappresentazione realistica dei rapporti tra i personaggi, abbiamo convento sull’opportunità di mantenerci fedeli allo spirito voltairiano: nessuna psicologia, pertanto, ma solo la concretezza dei comportamenti e delle azioni. Certo poi questo lungo lavoro di scavo preliminare di personaggi, questa riflessione fatta a tavolino sulle loro motivazioni comportamentali, mi è risultato molto utile con gli attori, per i quali è fondamentale il lavoro di individualizzazione. L’importante è che recitino sempre dei personaggi e mai delle caricatura. Qualsiasi testo può vivere autenticamente sulla scena solo se sostenuto da un’interpretazione sempre motivata: gli attori devono sempre sapere ciò che sta dietro alle azioni dei loro personaggi, per poter dare a loro verità.

A.V.
Per realizzare le immagini e i suoni che attraverso i video e le casse acustiche dialogano in scena con gli attori, tu non ti sei limitato a chiedere ad altri attori e ad alcuni amici una loro presenza virtuale, ma sei andato anche a Cuba per registrare una grande quantità di immagini. Quali sono i motivi di fondo  di questa scelta?

A.L.
Nel momento che con Aldo Nove abbiamo scelto di cimentarci con il musical, pur rivisitato all’insegna della povertà di mezzi, ci siamo anche subito interrogati su che cosa fare in particolare a proposito dei balletti, visto che stavamo pensando a una musica sovente costruita proprio in funzione del movimento. È allora che, in piena coerenza con l’impostazione progettuale dello spettacolo, mi è venuta l’idea che in questo viaggio nell’immateriale anche i ballerini potevano esistere solo nel video. Il problema di fondo, si è spostato pertanto su come coniugare in modo armonico un gruppo musicale che suona dal vivo con le immagini registrate dei ballerini. Risolto questo problema tecnico (con un’idea molto semplice ma credo efficace), siamo partiti per Cuba dove avevo fatto la conoscenza di un favoloso gruppo di ballerini e di musicisti, capaci di coniugare con grande vitalità l’aspetto folklorico con quello tribale. Personalmente sono molto contento dei risultati: delle ventuno canzoni che sono presenti nel nostro spettacolo più della metà sono suonate insieme dall’orchestra registrata e dai musicisti dal vivo, alcune si accompagnano in modo armonico al movimento dei ballerini e le altre sono eseguite solo da quello splendido gruppo di musicisti che ha accettato di condividere sul palcoscenico la nostra avventura: tutti provenienti da esperienze classiche, ma capaci di suonare più di uno strumento.

A.V.
Nel corso del loro viaggio, Candido e i suoi compagni s’imbattono in numerosi personaggi del presente più meno prossimo, che sono lo specchio della nostra società…

A.L.
Era proprio questo il nostro obiettivo: compiere un viaggio immobile nelle contraddizioni del nostro presente. Inizialmente, con Aldo, avevamo addirittura pensato di fare noi stessi il viaggio del nostro Candido, registrando lungo la strada le immagini per lo spettacolo: quindi la Russia, l’Iraq, il Medioriente, Cuba e anche l’Africa. Poi, ci siamo accorti che tutto ciò correva il rischio di diventare non solo troppo dispendioso, ma anche solo un esercizio di stile, con inutili barocchismi. E vi abbiamo rinunciato a favore di una sintesi teatrale che mi sembra molto più consona all’impostazione generale dello spettacolo. Certo i personaggi contemporanei sono restati: dal Missile intelligente a Bin Bush, ma ciascuno evocato con molta semplicità. A me piace molto, ad esempio, la soluzione che abbiamo trovato per le apparizioni di Lenin e Stalin, dopo aver pensato addirittura di animare al computer delle statue riprese in video in Russia. Ora c’è solo una soluzione teatrale molto elementare, ma che mi sembra perfettamente funzionale a uno spettacolo che tende sempre a trovare un equilibrio tra la teatralità in senso classico e l’elaborato uso immateriale di immagini sonore e visive.