Non un silenzio

Un accordo indecifrabile perché difficile, raggrumato, ed anche perché proveniente da uno strumento a suoni totalmente risonanti, di timbro in timbro differentemente estinti, nel tempo della sparizione della sonorità nell’aria che quella sonorità ha generato e che quella sonorità spegne. Quindi nient’altro, perché è giusto che nella rappresentazione di quel che resta, oltre la lontananza, e dopo la sua perdita materiale ci sia solo, e proprio solo, il profondo nulla. Non un silenzio.

Con queste tre parole: non un silenzio, Giovanni Morelli chiude il libro Scenari della lontananza del 2003, raccolta di saggi sulla musica occidentale del secondo ‘900. Questa minuscola frase di tre parole è, a mio avviso, uno dei suoi tanti momenti di genio, non soltanto perché arriva al termine di un’approfondita indagine sulla dissolvenza incrociata, lenta e lontana fra il profondo nulla e le grandi musiche d’arte del ‘900, abbandonandoci poi all’improvviso davanti a una porta spalancata sul vuoto e rimettendo, di fatto, tutto in discussione, ma perché, trattandosi di musica utilizza una parola legata all’ascolto: silenzio, che come sappiamo, dopo il ’900 è di fatto parola inattiva. La perdita materiale del suono non è un silenzio semplicemente perché il silenzio, come ci dicono sia la fisica contemporanea che Cage, non esiste. Ora sappiamo che lo spazio è vibrazione e quindi “suono”. Siamo dentro a un “suono“ più grande, viviamo in questo suono, ma la nostra protettiva soglia di udibilità, non è tarata per udirlo. Ho avuto la grande fortuna di nascere e crescere in una famiglia molto poco silenziosa. Mio padre Sergio (compositore), mia madre Margot (musicista, regista e potrei continuare con una parentesi lunghissima vista la sua strabordante creatività) e Giovanni. Sono cresciuto con Giovanni e mia madre da quando avevo due anni e Giovanni ne aveva ventidue e forse è anche per questa ragione e per la quantità di musica che si ascoltava e si produceva in casa, che ho sempre pensato intimamente che anche noi, la nostra famiglia, tutti gli esseri umani e i gatti i criceti e le foglie del giardino fossimo “corpi sonori” come gli strumenti che vedevo in casa, chitarre, violoncelli ecc. e di conseguenza avessimo un vuoto in cui tutto nasceva e risuonava. Così il giorno che alle elementari hanno tentato di spiegarci il significato della parola anima l’ho naturalmente interpretata come sinonimo di suono. A ognuno il suo o i suoi. Imprendibile e inudibile come il suono dell’universo sconosciuto al nostro ascolto a meno che non venga abbassato o alzato elettronicamente alla portata del nostro udito.

L’anima dell’uomo
è simile all’acqua:
Dal cielo viene
al cielo sale,
e di nuovo giù
sulla terra cade
variando in eterno.

Così inizia il Canto degli spiriti sopra le acque di Goethe musicato da Schubert. Ho immaginato nel mio lavoro preparatorio di sostituire la parola anima con la parola suono e da questo azzardo è iniziata l’elaborazione del dispositivo armonico e formale (che illustrerò più avanti) per questo brano dedicato a Giovanni e alla dolce e dolorosa presenza della sua lontananza.

Travestimento
Edoardo Sanguineti, con cui ho avuto l’onore di collaborare per quindici anni fino alla sua scomparsa nel 2010, indica una strada precisa agli uomini di lettere che credo possa essere applicata agevolmente anche a chi s’appresta a scrivere musica oggi: il travestimento. Non c’è nessuna nota/suono, temperato o stemperato, che non sia già stato messo in scena. Nel momento stesso in cui viene udito vuol dire che è già stato rappresentato e nell’attimo in cui si decide di reinterpretarlo (e quindi reinventarlo attraverso l’arte della scrittura) inevitabilmente lo si tradisce/traveste. La prassi di Edoardo, applicata alla parola, nettamente agli antipodi del postmodernismo del copia-incolla tende, e ci riesce egregiamente, a una sorta di rifondazione stessa del linguaggio attraverso la poesia. Poesia estremamente personale in cui però, se si vogliono proprio cercar le fonti dei tradimenti/travestimenti, c’è solo l’imbarazzo della scelta da Dante ai Sex Pistols e oltre. Modus operandi peraltro molto simile a quello applicato da Giovanni in relazione alle musiche. Utilizzate per le sue ricerche in modo libero dalle gerarchie accademiche o di mercato (alto e basso vecchio e nuovo ecc.) e analizzate e ripensate come un unico grande flusso della storia sociale e antropologica dell’uomo. Due grandi umanisti. Tratto fondante della loro eredità.

Impronte
Ma veniamo alla musica. La letteratura per viola e orchestra, soprattutto dopo la generosa spinta propulsiva di un gigante come il M° Bashmet è molto cresciuta durante il ’900. Come affrontare quindi una scrittura in un terreno già così ricco di possibili saturazioni grammaticali? Per me, l’unica modalità è quella del travestimento di cui sopra, guidato, non dalla ricerca di ulteriori sintassi (il discorso che parla del discorso) ma unicamente dal sentimento di profonda gratitudine che ho per Giovanni. Così ho strutturato il brano, evitando di riferirmi frontalmente a lui (non credo gli sarebbe piaciuto), utilizzando come guida tre dei suoi disegni/quadri del 1968 facenti parte di un ciclo molto più ampio dedicato a mia madre. Sono sorprendenti per vitalità, profondità e delicatezza. Acquerelli misto chine coloratissimi che nel tratto assolutamente consapevole (Giovanni è stato fra le altre cose professore all’ Accademia di Belle Arti di Bologna dal 1965 al 1978) risultano essere, visti in prospettiva, quasi delle impronte di una scrittura a venire. Impronte o partiture a cui dar voce? Credo entrambe le cose.

Da e per Giovanni
Così ho individuato le note nel suo nome e cognome: G (sol) A (la) E (mi) e ho pensato a Rameau (autore a cui Giovanni ha dedicato molto) e al suo trattato d’armonia secondo i principi naturali in cui si considerano validi per il comporre corretto solo i primi otto armonici naturali di ogni nota. Ho optato per utilizzare i successivi otto armonici, all’epoca disgracieux à l’oreille oggi ampiamente acquisiti. Ho elaborato quindi tre differenti scale ottofoniche (una per ogni nota/lettera) e, rispetto alla forma ho suddiviso il brano rigorosamente in tre. Un movimento per quadro a cui ho applicato le scale (come materiale creativo) seguendo l’ordine “d’entrata in scena“ all’interno del nome e cognome di Giovanni e quindi assommandole. Riguardo alla forma ho tratto ispirazione dalle forme brevissime di Kurtàg a cui il testo di Giovanni in apertura fa riferimento. Sono quindici frammenti (il caso vuole che 15 siano le lettere che compongono il nome e cognome di Giovanni) 13 come le lettere che compongono Non un silenzio con l’aggiunta di un preludio e un postludio. Al ritorno di alcune lettere, come per esempio la lettera N, corrisponde un ritorno trasfigurato del movimento musicale della precedente N. Semplificando la struttura:
1 – Non (in G) (preludio+3 frammenti)
2 – Un (G+A) (2 frammenti)
3 – Silenzio (G+A+E). (8 frammenti + postludio).

Giovanni mi ha accompagnato al Conservatorio per l’esame d’ammissione al corso di viola. Ero terrorizzato davanti all’autorità del Maestro che scrutava le mie manine fra le sue per capire se sarebbero diventate le mani di un violista. Giovanni percepita la mia paura mi ha lanciato una rapida occhiata invitandomi a rivolgere lo sguardo verso le scarpe del Maestro. Erano scarpe da tennis uguali a quelle che portavo io e la cosa finalmente mi tranquillizzò. Non un silenzio è solo uno dei tanti grazie che continuerò a dirgli.

Andrea Liberovici ottobre 2013