Che si lasci farneticare da Johnny Weismuller o da Re Lear, a nuotare e smaniare su marmi obitoriali o stringendo maniaco la criniera del suo cavallo a dondolo, non importa, è lo stesso grandioso vecchio che si concilia con la sua apocalisse in mutande e canottiera, lo svergognato abisso alla Holderlin che si è conquistato e forse anche meritato, dopo tanta coltivata gogna. La corona gli spetta e lui sa come disfarsene.
Nome Gianfranco, cognome Funari, benvenuto nell’abiezione della perdita che non sarà male chiamare nostalgia, bentornato nella carnevalata dell’osceno che non si può chiamare altro che osceno. Il vecchio corpo è la stessa cosa del vecchio porco, rantola, sibila, espone le sue carni cachetiche al mondo, pesca ossigeno a bocca aperta, ingoia mosche e sputa suoni. Il silenzio della giungla corrisponde allo spartito in sala rianimazione dei comatosi intubati, il musicale respiro agonico delle giraffe a cui il buon Dio ha smesso di allungare il collo perché è venuto il momento di torcerlo. E si diverte a farlo, sicuro, si sprecano gli indizi. “E poi non è rimasto più niente”. Questo finalmente irriconoscibile Funari che incontra non a caso Liberovici si concede ben al di là dell’ovvio re denudato. Non gli serve più nemmeno la dentiera per congelare lo spasmo, smozzicare la preghiera, abortire l’urlo, mancare l’appello dei cinquemila leoni assenti ai piedi di un Tartan definitivamente demente..
E’ il sorriso demente dell’accecato, è il bianco che ustiona e sale dalla giungla dissolta. Ci si prepara così, il ghigno che si stabilizza in rictus, a salutare dalla confortevole cavità non ancora sigillata le sagome che faranno la fila per affacciarsi. Da cadavere. Terrorizzare il mondo, dopo aver terrorizzato te stesso.
Il signor Funari si allena e non si risparmia. “E’ tutto un sogno e dentro questo sogno ne combiniamo di tutti i colori” (nelle parole di Aldo Nove). Funari ci sta da dio nella pelle d’asino di questo tamburo afasico, la rivendica la stanchezza estrema di un corpo che insiste solo come caverna del suono. Unica drammaturgia possibile.
Giancarlo Dotto