A proposito di transdisciplinare la domanda sorge spontanea: e se le prepotenti e meravigliose crisi linguistiche del ‘900 fossero la radice di un vero e proprio cambio di paradigma che sta iniziando a maturare solo adesso?

Fra le tante discipline, l’arte acustica e l’arte visiva, stanno ancora declinando in migliaia di generi diversi le proprie crisi o, grazie alle nuove tecnologie, sta iniziando fra di loro una sorta di crasi? Per fare un esempio “circoscritto“ alla musica e alle arti visive, il celebre epistolario Schoenberg-Kandinsky non è forse il seme, piantato più di 100 anni fa, di quello che sta sbocciando ora? Questa domanda sta alla base della mia ricerca degli ultimi vent’anni grazie anche all’utilizzo della disciplina teatrale, utile fin dalle sue origini come sappiamo, ad unire e fondere tutte le arti in un’unica visione.

Sono convinto che un possibile sviluppo della fisionomia del compositore (peraltro già in atto da alcuni anni) possa esser quella non più, di un compositore “soltanto“ acustico/musicale ma di un compositore transdisciplinare. Ogni smartphone, se ci pensiamo, è potenzialmente un nuovo pianoforte con cui “scrivere“ sia musica che immagini. La questione è, come sempre, trovare la propria voce attraverso le proprie domande e non “suonare“ le risposte facili di un algoritmo. Se ci pensiamo, il nostro corpo è la prima e la più antica forma transdisciplinare che conosciamo. Credo sia giunto il tempo in cui anche le forme artistiche possano fondersi insieme con l’obbiettivo di ritrovare, innanzitutto, una nuova empatia con la nostra umanità.

Venezia come prototipo di futuro?

In Maschera

“Nell’epoca della massima estraniazione degli uomini fra loro, dei rapporti infinitamente mediati che sono ormai i loro soli, sono stati inventati il film e il grammofono. Nel film l’uomo non riconosce la propria andatura, nel grammofono non riconosce la propria voce.“

Walter Benjamin: “Franz Kafka nel decimo anniversario della sua morte“

 

Questa sensazione di inadeguatezza rispetto alla propria rappresentazione da parte del cinema e del grammofono, che ci segnala Benjamin all’inizio del secolo scorso, non esiste più. Ma la sua estinzione non corrisponde ad un assenza ma, al contrario, ad un eccesso di presenza “travestita“. Ovvero l’ adesione totale, come in un rapporto amoroso “fusionale“, all’immagine tecnologica di “se“ moltiplicata dai social all’infinito. Il paradosso è che questa moltiplicazione della propria finzione produce, nella maggior parte dei casi, l’esatto opposto di ciò che si intende comunemente con “sociale“.
In sintesi se la socialità si fonda innanzitutto sull’ascolto dell’altro, quest’epoca così social mi sembra si fondi sulla costruzione della propria icona e quindi della propria maschera… quasi che sul palcoscenico stessimo salendo tutti lasciando la sala del teatro…vuota.

 

La bellezza è una domanda (?)

Credo che quando l’uomo ha scoperto il fuoco, prima di comprenderne le reali potenzialità, si sia dovuto inevitabilmente scottare. Questo per dire che la meravigliosa rivoluzione tecnologica che sta facilitando gran parte del nostro presente ho idea, forse sbagliando, che parallelamente stia bruciando la nostra capacità di creare, amare e indagare la bellezza. Ma quale bellezza, visto che tutti i canoni di bellezza classici, moderni, post moderni ecc. sono esplosi in miriadi di stili e generi diversi? C’è una frase di Flaubert che mi ha aiutato ad affrontare questo tema: “Non è la perla a fare la collana ma il filo“. Possiamo aggiungere che una perla scalfita può alterare l’armonia della collana, mentre un filo logoro ne pregiudica l’esistenza. Se applichiamo questa metafora alla bellezza potremmo forse dire che non è la qualità o la quantità di ciò che appare (perle/bellezza), ma sono le qualità del filo, ovvero delle domande che soggiaciono alla creazione, che determinano la bellezza stessa. Per uscire dalla metafora, esistono ancora delle domande umanistiche alla base dell’atto creativo? L’atto creativo è ancora inteso come ponte possibile fra gli esseri umani?
A proposito di ponti, per approfondire la mia proposta ho bisogno di parlare di Venezia.

 

Venezia come prototipo di futuro?

Venezia è l’unica città al mondo senza periferia. E già in questo è di una modernità e bellezza irraggiungibili. Ma nel caso non fosse l’unica al mondo (non sono un geografo) credo non ce ne siano altre che ti impongano, al tuo arrivo, un così pesante jet lag temporale.
Chiunque abbia avuto la fortuna di conoscere “personalmente“ Venezia sa di cosa parlo: l’obbligatorietà vincolante di adeguarsi ad un ritmo largo.

Ma quali sono le combinazioni segrete di questa macchina del tempo e della bellezza così potenti da trasformare il modo di camminare, respirare, ascoltare, guardare ecc. ogni volta che ci si cade dentro? Ovviamente non ci sono risposte univoche ma solo una moltitudine di indizi intrecciati, difficilmente collocabili in una città “museo“ perché… vivi.

Provo ad elencarne tre fra i più sensibili per me: il suono, il teatro e quindi la visione. Venezia, turisti permettendo o anche grazie a loro, è città dell’ascolto. La morfologia della città, che del suono è cassa di risonanza, sembra esser stata pensata più da maestri liutai che da architetti. Non parlo ovviamente solo del labirinto di rifrazioni acustiche di suoni concreti come l’acqua, i passi e via dicendo ma dell’invenzione urbanistica, fra i tanti possibili esempi, del campiello come palcoscenico ideale dell’incontro e quindi del grande teatro delle voci, dei corpi, delle idee e della visione… di una cultura umanistica.

Venezia, nel suo intreccio architettonico fra arti e vita, è forse quindi un gigantesco, galleggiante e sicuramente molto ma molto ante litteram dispositivo transdisciplinare o forse il prototipo di una città futura finalmente a misura d’uomo?